Prima di Walter White, c’era Vic Mackey. Dal 2002 al 2008 il cable network FX struttura con The Shield, ancora inconsapevolmente, il trend della propria programmazione futura, che oggi lo ha portato ad essere uno dei canali dall’offerta più interessante. Lo fa confezionando un poliziesco duro, violento, adrenalinico, tanto agganciato all’aspra realtà criminale che si respira tra le strade più malfamate di Los Angeles, quanto pronto a sganciarsi dallo stretto documentarismo per narrare il percorso autodistruttivo di un gruppo di agenti corrotti. Risultato è una lunga e soffocante tragedia urbana che si consuma inesorabilmente nell’arco di sette stagioni, un capolavoro di scrittura e crudezza.

Il distintivo spezzato e distorto che fa da sfondo alla intro, sulle note altrettanto violente di Just Another Day di Vivian Romero, è il degno sipario che si alza, di episodio in episodio, sulle vicende narrate nella serie di Shawn Ryan. Sul palco già si agitano i protagonisti della storia, i membri della squadra d’assalto dell’immaginario distretto di Farmington, pronti ad una nuova giornata di scontri. È in quella massa indistinta di bene e male, di giustizia e criminalità, che i contorni si confondono, bruciano e scompaiono, ed è in quelle zone d’ombra che i quattro agenti corrotti guadagnano in segreto, stringono accordi con la malavita, agiscono al di fuori della sfera della legalità che gli compete.

Si tratta di Vic Mackey (Michael Chiklis), Shane Vendrell (Walton Goggins), Curtis Lemansky (Kenny Johnson) e Ronnie Gardocki (David Rees Snell). Ad un livello più profondo rispetto a quello della superficie poliziesca, spesso ricondotta all’anima più procedurale della serie, The Shield è il drammatico resoconto del patto di sangue stipulato da questi uomini, di un sentimento di amicizia, cameratismo e rispetto fraterno che lascia il passo a sentimenti altrettanto forti, ma contrari. Il resto è una cornice di indagini, sparatorie, violenza e sangue che spesso sconfina fino ad avvelenare il quadro: è fondamentale, ma non esaurisce il discorso. Nell’arco di sette stagioni, per un totale di 88 episodi, ci si urla in faccia, si versano lacrime, si compiono i gesti più ignobili e si mantengono i segreti più inconfessabili, tutto nel nome di un ideale che è più alto, che deve esserlo, perché rappresenta l’unica occasione di redenzione.

Anche in questo, Breaking Bad partirà da qui. I punti in comune sono molti, ed è difficile non vedere in Vic il “padre televisivo” di Walter. Si tratta di personaggi limite, che assumono su loro stessi la decisione di agire, andando incontro alle conseguenze, impostando i loro comportamenti sulla base di un rigido codice morale che vede in entrambi i casi la protezione della famiglia al vertice. Se Walter aveva lo spettro del cancro, Vic deve confrontarsi con l’autismo dei figli e le cure costose che ciò comporta. L’elaborazione dei fantasmi delle colpe commesse viene data per scontata, o nascosta sotto la rigida maschera di un personaggio che si interpreta fino a identificarsi completamente con esso. A quel punto il dilemma è solo dello spettatore, che non smetterà di porsi la domanda fino all’ultimo minuto dell’ultimo episodio: fino a che punto il male può essere tollerato in nome del bene?

In questa recita dai contorni shakespeariani, dove la rigidità ed eccessività dei caratteri esplode in reazioni limite, azioni diaboliche e sensazioni fortissime (il mood di Sons of Anarchy è già tutto qui) la vicenda centrale respira – si fa per dire – spostandosi su caratteri che sarebbe sbagliato definire secondari. Su tutti il capitano David Aceveda (Benito Martinez) che sarebbe semplice, ma anche riduttivo, definire come la nemesi di Vic, i detective Claudette Wyms (CCH Pounder) e “Dutch” Wagenbach (Jay Karnes), e gli agenti Danielle Sofer (Catherine Dent) e Julien Lowe (Michael Jace). Impossibile sintetizzare qui i singoli percorsi umani e gli archi narrativi di cui saranno protagonisti. Ciò che si può dire è che anche loro, come il quartetto della squadra d’assalto, finiranno per essere risucchiati nel sistematico processo di distruzione dei caratteri ordinari: nessuna rassicurazione, nessuna certezza, nessuno completamente buono o cattivo.

L’empatia, d’altra parte, rimane una componente fondamentale, e i migliori show degli ultimi anni ci hanno mostrato come siano proprio le figure non scontate, quelle al limite, spesso sbilanciate verso il “male” ad affascinare maggiormente. The Shield non fa eccezione, anzi ne rappresenta uno degli esempi maggiori. Merito di una catena di interpretazioni praticamente priva di anelli deboli (Chiklis su tutti, con un personaggio di enorme impatto e fascino), e di una scrittura che riesce a mantenere in equilibrio sviluppo della trama orizzontale generale, archi narrativi stagionali e momenti che si esauriscono nel giro di un episodio. L’attenzione quindi non scende mai sotto la soglia d’allarme, merito anche di stagioni brevi, dai 10 ai 15 episodi ciascuna. Come nota a margine, si ricorda negli anni anche la presenza nello show, in archi narrativi ben definiti, di Glenn Close (che poi sarebbe stata protagonista di un altro show di FX, Damages) e del premio Oscar Forest Whitaker. Curiosità: Cathy Cahlin Ryan, che interpreta la moglie di Vic, è nella vita vera la moglie di Shawn Ryan.

In tutto questo Shawn Ryan, ideatore e produttore esecutivo dello show, è la vera anima pulsante dietro il capolavoro di FX. In collaborazione con Scott Brazil, con cui già aveva lavorato per Nash Bridges, prende spunto dallo scandalo Rampart, che coinvolse negli anni ’90 un’unità anticrimine in azione proprio a Los Angeles, per dare una base alla serie. E proprio Rampart, insieme a The Barn, era uno dei titoli presi in considerazione in un primo momento per lo show. Brazil, che proveniva dalla lezione di Hill Street Blues, in cui aveva lavorato negli anni ’80, scompare improvvisamente nel 2006. Nello stesso anno lascia la serie il produttore, anche sceneggiatore della prima stagione, Glen Mazzara, che ricordiamo come showrunner della seconda e terza stagione di The Walking Dead. Da sottolineare anche il contributo di Kurt Sutter, oggi più noto per essere il creatore di Sons of Anarchy.

Per quest’ultimo motivo, ma non solo, The Shield può essere considerato, a dodici anni dal suo debutto, come il punto zero della programmazione di FX. L’anima adrenalinica e violenta della serie non si è spenta nel 2008 con il season finale dello show, ma è sopravvissuta, reincarnandosi nelle varie proposte del network. Sons of Anarchy ne è il successore ufficiale, ma non è l’unico: anche Terriers, Justified e, in qualche modo, il recente Fargo. Origine dunque, ma anche punto mai più raggiunto. The Shield colpisce allo stomaco con una visione che, se non ha il rigido documentarismo di The Wire, al tempo stesso ci guida per le strade più violente di Los Angeles con la sua messa a fuoco spesso non regolata, con il suo stile registico frenetico fatto di violente zoomate, con la sua visione tutt’altro che rilassante e scontata. Disperato, agghiacciante, furioso, una scarica di adrenalina che dura sette stagioni: questo è The Shield.