Life, all life, is about asking questions, not about knowing answers.

Nel mare immenso di produzioni televisive alle quali Steven Spielberg ha contribuito direttamente o indirettamente negli anni, Taken sembra occupare un posto speciale. C’è qualcosa in questa  miniserie trasmessa da Sci-Fi Channel nel 2002 che si richiama direttamente ad una delle tante anime del cinema dell’autore (non necessariamente la migliore), quella di quell’universo a misura di bambino, magico e terrificante, dove la fantascienza diventa fiaba, dove esistono i buoni e i cattivi, dove tutto può essere ricondotto a una lezione che, se non ci darà risposte, almeno ci lascerà con alcune domande. Imperfetto, nostalgico, ma molto piacevole, questo è Taken: un cammino lungo decenni tra lotte familiari e rapimenti alieni.

I larghi confini coperti dalla serie coprono un arco di quasi sessant’anni, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale all’inizio del terzo millennio, raccontando le esperienze di tre/quattro generazioni appartenenti a tre famiglie: i Clarke, i Crawford e i Keys. Ad intrecciare i fili delle esistenze dei protagonisti saranno delle apparizioni aliene che scandiranno di volta in volta l’avanzare della storia causando dei cambiamenti determinanti nelle loro vite e delineando a poco a poco un percorso prestabilito che diventerà sempre più chiaro.

Se il punto di partenza è una misteriosa apparizione sui cieli d’Europa durante una battaglia aerea negli anni ’40 che sorprende il pilota Russell Keys (Steve Burton), il vero motore degli eventi si ricollega con il famoso “incidente di Roswell” del 1947. Dal ritrovamento del disco volante nel New Mexico inizia infatti l’ossessione del crudele capitano Owen Crawford e dei suoi discendenti verso la realtà extraterrestre, mentre l’unico sopravvissuto allo schianto, “John” (Eric Close), trova riparo presso la fattoria della famiglia Clarke. Dal suo legame con l’umana Sally (Catherine Dent) nasce un ibrido dalle facoltà sorprendenti; intanto la famiglia Keys continua ad essere tormentata da apparizioni aliene. Come facilmente intuibile, ogni generazione ha il proprio protagonista che di volta in volta raccoglie l’eredità del percorso fatto fino a quel momento. Procedendo nella storia, i contatti con le altre famiglie si moltiplicano fino ad una conclusione in cui tutti i percorsi convergono in un unico punto. Il tutto trascinato dalla voce narrante di una giovanissima Dakota Fanning.

Dopo gli scenari bellici di Band of Brothers per la HBO, che partivano almeno idealmente da Salvate il soldato Ryan, Spielberg ancora una volta da produttore è artefice di un’opera di adattamento della propria visione dal grande al piccolo schermo. I riferimenti sono chiari: l’uomo di Incontri ravvicinati del terzo tipo, schiacciato da una forza nettamente al di fuori della sua portata, verso la quale si sente attratto e impaurito al tempo stesso, e il bambino di E.T., nella sua semplicità e innocenza la chiave per una sintesi tra i due mondi. Taken non ha né la maturità del primo né la poetica del secondo, ma viene costruito sulla scia di entrambi, cercando una sintesi forse irrisolvibile, ma interessante.

Ad un primo impatto Taken colpisce per la sovrapposizione di toni: l’efferata violenza e crudeltà di alcuni momenti che si contrappone al dramma sentimentale, che lascia il posto all’azione che ritorna ad una fantascienza – quella nel solco di E.T. – che ha qualcosa di magico. E in questo alternarsi di generi in cui cattivi e buoni sono troppo marcati, in cui le ingenuità narrative non sono poche, in cui il design “classico” degli alieni oggi può far sorridere, si rischia ogni tanto di perdersi. Eppure Taken non cade mai: trasmessa senza interruzioni nelle serate dal 2 al 12 dicembre 2002, questa produzione da 40 milioni di dollari si concede pochi attimi di rilassamento, coinvolge con dei caratteri forse eccessivi ma in grado di farsi ricordare (davvero sorprendente Dakota Fanning, che tra Spielberg e gli UFO si sarebbe ritrovata in seguito nella Guerra dei mondi), lavora per ispirazione (nella soundtrack c’è anche qualcosa che richiama i lavori di John Williams), ma costruisce anche una propria identità.

Quell’identità che permise un buon apprezzamento da parte di pubblico e critica, che portò la serie a vincere un Emmy, risultato ottimo per Sci-Fi Channel (SyFy si chiamava così) che avrebbe replicato l’anno successivo con Battlestar Galactica. In una serie in cui il cuore di tutto è la salvezza di un bambino “dotato” (come nel recente Believe), si passano poi in rassegna tutti gli elementi tipici del contatto con le civiltà aliene: avvistamenti, cerchi nel grano, rapimenti, esperimenti condotti da creature che, a differenza degli umani, così marcati, sono descritte come al di là del bene e del male.  Tutto questo partendo, non a caso, proprio da Roswell, e rifacendosi deliberatamente, quindi non per caso o per pigrizia, ad un design classico delle creature.

Tra Falling Skies e Extant (che tra le altre cose ha anche degli elementi di A.I.) negli anni Spielberg non ha mai perso quell’attrazione verso le storie con gli extraterrestri. La serie ideata e sceneggiata da Leslie Bohem rimane però un punto fermo, decisamente più ispirato e riuscito di molti progetti che sarebbero seguiti, forse perché interamente concepito fin dall’inizio. Una bella miniserie, che per gli spettatori italiani significa uno sguardo all’estate di dieci anni fa, quando venne trasmessa sulle nostre reti.