Band of Brothers è il sapore della cenere in bocca, è la sensazione del fango sulle uniformi, è una pioggia di uomini che, in uno scenario surreale, quasi fosse un dipinto di Magritte, scendono tutti uguali dal cielo della Normandia, oltre le linee nemiche, per spianare la strada a chi sarebbe arrivato dopo. Solo una volta a terra impareremo a conoscerli e a distinguerli, in quello che rimane uno dei più grandi sforzi produttivi della storia della televisione. Lontana dall’essere semplicemente uno spin-off televisivo di Salvate il Soldato Ryan, la miniserie del 2001 andata in onda sulla HBO – sempre questo network a fare la strada della tv a colpi di capolavori – nata dalla collaborazione del trio delle meraviglie Spielberg-Hanks-Ambrose è un capolavoro di realismo e antiretorica, straordinariamente curato nei dettagli, emozionante come pochi. Forse la più grande miniserie televisiva mai creata.

Nel 1998, dopo aver accarezzato la questione del secondo conflitto mondiale, filtrata ora attraverso il racconto di formazione con L’impero del Sole, ora attraverso il dramma storico con Schindler’s List, ora addirittura attraverso la parodia e l’avventura, rispettivamente con 1941 – Allarme a Hollywood e la serie di Indiana Jones, Steven Spielberg si getta a capofitto nel genere bellico. Gli fa da consulente, per quello che diventerà il film che gli farà vincere la seconda statuetta come miglior regista, lo storico e biografo Stephen Ambrose. Ma non è la fine, è solo l’inizio. La storia, anzi la Storia, è troppo grande per un solo film, ed è così che tre anni dopo, dopo altrettanti di produzione, si arriva alla trasmissione dei dieci episodi di Band of Brothers, serializzazione opportunamente romanzata dell’omonimo testo di Ambrose, stavolta anche produttore insieme a Tom Hanks.

Dall’addestramento a Camp Toccoa, in Georgia, nel luglio del 1942, fino all’occupazione del rifugio di Hitler, tre anni dopo, si racconta l’esperienza collettiva di guerra della compagnia Easy, 101° divisione aviotrasportata. Dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dalla Francia all’Olanda e quindi in Germania, è la cronaca di un pezzo di storia filtrata attraverso l’esperienza umana, con i suoi dubbi e incertezze, incompetenze e paure, slanci di coraggio – anche eccessivi – e senso del dovere, cameratismo e condivisione.

Band of Brothers incatena alla visione fin dai primi minuti e non lascia un attimo di respiro. Lo fa perché è essenzialmente una vicenda umana prima che storica, emozionante prima che documentaristica. Poi il contesto e la ricostruzione rasenteranno la perfezione maniacale, ma questo rimarrà comunque la cornice di una vicenda che esiste, respira, soffre, muore perché ci sono figure vere e palpabili a mandarla avanti. Come nella partita di baseball che conclude la storia, e che è il trampolino di lancio per raccontare cosa ne è stato di questi veri soldati, anche nel corso dei dieci episodi i personaggi si lanciano la palla tra di loro, di volta in volta assumendo un certo punto di vista sugli eventi. Nessun flashback, pochissimi cenni al loro passato, solo l’ora e l’adesso.

Al termine della visione non rimangono tanto i nomi e le località, anche se citare Bastogne sarà sufficiente a scatenare una serie di immagini, quanto i personaggi e i loro atti, non sempre positivi. Sobel (David Schwimmer), Winters (Damian Lewis), Spiers, Lipton, Nixon e tantissimi altri: alla fine nessuno di loro sarà un semplice nome su una piastrina – le stesse che con un’immagine molto evocativa i soldati si giocavano in una scena di Saving Private Ryan – ma saranno figure vive, degne di rappresentare gli anziani veterani che in apertura di ogni episodio racconteranno le loro esperienze, sempre ricollegate ad eventi specifici della puntata. A questo punto sembra quasi superficiale specificare l’addestramento cui il cast si è sottoposto, mentre è quasi impressionante passare in rassegna i nomi noti che si intravedono, anche per pochissime scene e con pochissime linee di dialogo: Michael Fassbender, Simon Pegg, James McAvoy, Tom Hardy, Andrew Scott, addirittura Jimmy Fallon.

Con i suoi 104 milioni di budget, cifra record all’epoca, Band of Brothers è il risultato di uno sforzo produttivo immenso, con un lavoro spesso invisibile nella ricostruzione in interni, effetti speciali impressionanti non tanto per l’epoca quanto soprattutto per il mezzo televisivo, un cast enorme e tantissime comparse. Ma, ancora una volta, non è un freddo dispiego di mezzi produttivi che impressionano per la loro mole, anzi spesso tutta la grandezza dell’opera passa in secondo piano rispetto alla tensione del momento, sia essa una battaglia in trincea, un lancio da un aereo, o la tragica scoperta di un campo di concentramento nell’episodio Why We Fight, che prende il nome da una serie di documentari di propaganda.

È praticamente impossibile trovare un limite a questo prodotto, che alcuni anni dopo – orfano della consulenza di Ambrose, intanto scomparso – avrebbe avuto un seguito ideale in The Pacific. Nonostante la grandezza di Salvate il Soldato Ryan, cui basta la scena dello sbarco in Normandia per oltrepassare la perfezione ed entrare nella storia del cinema, è anche vero che quel film, in qualche modo accordandosi alla poetica del suo autore, cedeva in vari momenti al manicheismo più fastidioso. Limiti di retorica che invece non vengono mai oltrepassati dalla serie, che non esita a suggerire l’idea di un americano che uccide a sangue freddo prigionieri tedeschi o che proprio dalle parole dei veterani sottolinea in fondo i caratteri comuni a giovani che si sono trovati a combattere per schieramenti opposti.