Se raccontare Dune è difficile, tradurlo in immagini è impresa impossibile. Perché è più di una semplice storia di tradimento e vendetta, è un universo intero, è un sistema di pensiero, un nuovo modo di narrare miti che, in altre forme, abbiamo ascoltato più e più volte. Sorvolando molto rapidamente – perché di più non si può dire qui – la saga in sei romanzi scritta da Frank Herbert tra il 1965 e il 1985, quella che emerge è l’armonia dell’universo ideato dall’autore, in cui politica, religione, economia, linguaggio, natura, società, tradizioni non sono blocchi separati, ma si integrano e riflettono l’un l’altro per costruire qualcosa di verosimile, che ha la forza di leggere in un certo modo il periodo storico in cui è stata scritta, ma che ha anche una tale personalità da risuonare con un linguaggio “alieno”, e proprio per questo difficile da affrontare per il lettore di ogni periodo.

Ci provò Jodorowsky ad adattarlo per primo, in quello che è stato definito “il più grande film della storia del cinema tra quelli che non si sono mai fatti”. Esiste un meraviglioso documentario, intitolato proprio Jodorowsky’s Dune, nel quale si raccontano i passi – poi inutili – nella pre-produzione del lungometraggio: Orson Welles, Salvador Dalì, i Pink Floyd, Mick Jagger, Jean Giraud, H. R. Giger sono solo alcuni degli artisti che il regista cileno avrebbe voluto per il suo film più ambizioso. La “follia” di Jodorowsky sarebbe dovuta durare 14 ore, decisamente di più delle due ore e mezzo in cui nel 1984 David Lynch si sarebbe trovato a condensare il primo volume della saga. Ne uscì un film imperfetto, imponente e curatissimo sotto certi punti di vista, frettoloso e superficiale per altri.

Tutta questa premessa – limitata – per suggerire solo in parte il clima di attesa con il quale nel 2000 giungeva su Sci-Fi Channel, non ancora SyFy, la miniserie Dune. Il titolo completo del progetto originale sarebbe Frank Herbert’s Dune, e quel nome dell’autore, così ingombrante, sembra portarci lontano dalla trasposizione di 16 anni prima, per attingere a qualcosa che fosse il più vicino e aderente al materiale originale. Un po’ come, nel 1997, era arrivato Stephen King’s The Shining, che avrebbe dovuto appunto differenziarsi dalla versione di Kubrick e offrire una trasposizione più fedele. In entrambi i casi, è bene chiarirlo subito, non è detto che più fedele voglia dire più riuscito.

Il Dune di Jodorowsky sarebbe stato monumentale e indimenticabile, ma probabilmente anche troppo eccessivo e squilibrato. Il Dune di Lynch era più misurato ed essenziale, ma anche poco incisivo in vari passaggi. Il Dune di John Harrison e il suo sequel I figli di Dune del 2003 (il regista del primo è sceneggiatore di entrambe le miniserie) è molto più fedele, ma anche più anonimo e “televisivo” nel senso dispregiativo con il quale veniva utilizzato questo aggettivo non troppo tempo fa. Si tratta di una versione più concreta e materiale, che si prende alcune libertà soprattutto nell’adattamento del terzo romanzo della saga, ma che per il resto segue passo dopo passo il testo originale, senza osare, senza creare, senza personalizzare.

Tuttavia, oltre ai limiti intrinseci delle due opere, che non brillano né per sceneggiatura, né per regia (su ricostruzioni ed effetti, considerato il network e l’anno di trasmissione, sarebbe ingiusto chiedere di più), è qualcos’altro a pesare sulla riuscita di questi che potrebbero essere considerati lungometraggi da circa quattro ore ciascuno. E, visto che non è il caso di analizzare otto ore di televisione passo dopo passo, sintetizziamolo con una sola immagine: in questo Dune si vede la sabbia, ma non si percepisce la sete. Le vicende sono quelle note degli Atreides e degli Harkonnen, ci sono i Vermi della Sabbia, i Fremen e il Melange: la sostanza è tutta davanti a noi, ma manca una visione d’insieme, la percezione dei particolari, la sensibilità nella ricostruzione di un ambiente dove – chi ha letto i romanzi lo sa – anche una goccia d’acqua è un piccolo miracolo.

In un contesto così anonimo e arido, quello sì, di tematiche, anche l’abbagliante fotografia, curata dal plurivincitore dell’Oscar Vittorio Storaro, sembra perdere qualcosa del suo fascino. Dune è essenzialmente una saga che si svolge nella mente dei personaggi, è una lotta di personalità e di motivazioni, prima che di azioni e gesti violenti. E non è che la pochezza dei mezzi la penalizzi più di tanto, dato che di azione ce n’è poca e quasi tutto si svolge in interni. Qualcuno cercò di risolvere il fatto utilizzando il voice-over, Jodorowsky avrebbe probabilmente parlato solo per immagini – che per i più sarebbero state incomprensibili, ma forse era l’unico modo – mentre qui ogni cosa tende all’appiattimento e all’immediatezza, rivelando la propria inadeguatezza quando cerca di elevarsi a qualcosa di più.

Ma non tutto è negativo. Le due miniserie, che possono essere considerate come un unico progetto televisivo, hanno il pregio di estendere per lo spettatore non lettore l’esperienza limitata della trasposizione precedente, inglobando gli eventi del secondo e terzo romanzo, senza però andare oltre (ma d’altra parte il quarto romanzo si basa su una premessa davvero difficile da rendere sullo schermo). Dove la prima parte soffre inevitabilmente un confronto con il film di Lynch, la seconda è più libera e – forse proprio per questo – molto più riuscita e interessante. Da apprezzare l’idea di ritagliare uno spazio più ampio per personaggi marginali quali Irulan o il Barone Harkonnen, per non parlare dell’evoluzione di Alia nella seconda parte della storia, che ne fa un personaggio più complesso e tormentato.

Interessante infine il cast. Come avveniva nel film di Lynch, dove un Kyle MacLachlan al suo debutto era circondato da alcuni mostri sacri, anche qui i ruoli principali sono affidati a nomi poco noti, mentre attorno scorrono i volti di William Hurt, Giancarlo Giannini, Susan Sarandon, Ian McNeice. James McAvoy, che interpreta Leto Atreides in I figli di Dune, praticamente comincia qui la sua carriera, dopo una breve apparizione in Band of Brothers due anni prima.