“Have you tried turning it off and on again?”

Così tanti anni fa si sentivano rispondere i dipendenti della Reynholm Industries che, principalmente per futili motivi, chiamavano il reparto IT dell’azienda per ottenere una soluzione al loro problema. Giù, nel profondo di un disordinatissimo seminterrato, i nerd iniziavano una lenta risalita nella considerazione comune, la stessa che sarebbe esplosa l’anno seguente con il successo di The Big Bang Theory. Un riscatto che però non sarebbe mai stato quella dei protagonisti di The IT Crowd, che nel corso delle quattro stagioni della serie andata in onda su Channel 4 tra il 2006 e il 2010 saranno anzi costretti ad aggrapparsi in tutti i modi ad un lavoro che detestano, ma che rischiano spesso di perdere. Tra imbarazzo, risate e tanti momenti cult, inizia la storia della comedy multicamera britannica di Graham Linehan.

Protagonisti sono Roy (Chris O’Dowd) e Moss (Richard Aoyade), due dipendenti della Reynholm. Insoddisfatti, esasperati, considerati il più infimo livello dell’azienda, temono in un primo momento di veder cambiare le loro abitudini con l’arrivo di un nuovo supervisore di nome Jen (Katherine Parkinson). Come scopriranno ben presto, in realtà la donna non ha la minima competenza informatica, e in fondo non è quella gran lavoratrice che potrebbe apparire in un primo momento. Completano il quadro il nuovo direttore dell’azienda Douglas Reynholm (Matt Berry), menefreghista, inetto e un po’ pazzo, e Richmond Avenal (Noel Fielding), ex dipendente modello, diventato un goth e relegato a mansioni impossibili da definire. Abbastanza fuori di testa anche lui.

Come alcune delle migliori comedy, The IT Crowd non è immediato. Vive nell’immenso caos del seminterrato in cui opera il trio, scaffali su scaffali di roba inutile e gadget che continueremo a notare stagione dopo stagione scoprendo qualcosa di nuovo e affezionandoci a tutto il resto. È, per fare un esempio, il “flying spaghetti monster” cui non si farà mai cenno perché l’anima nerd dello show – che è più radicale e di nicchia di quella generalizzata e standardizzata su cui si basa The Big Bang Theory – sa di non doversene preoccupare, lavorando piuttosto in superficie su una comicità che invece è accessibile a chiunque.

Episodio dopo episodio, mentre si continua a giocare con il politicamente corretto, la serie inizia ad abbandonare gli stretti confini del seminterrato per sfruttare altre situazioni utilizzando come veicolo un trio di personaggi che ormai ben conosciamo. La misantropia di Roy (“I’ve met enough of them… people, what a bunch of bastards”), l’ansia sociale di Moss (il tormentone sulle frasi standard per discutere di calcio) e l’inadeguatezza di Jen (“Ladies and gentlemen, I present you… the internet!”) diventano punti di riferimento che possono essere integrati in ogni situazione sociale, sfruttando il parossismo di personaggi e contesti, disinteressandosi completamente di qualunque conseguenza o logica scelta, consapevoli che dall’episodio successivo tutto tornerà al punto di partenza. Su tutti citiamo il “cliffhanger” della prima stagione, mai più ripreso, o l’intero episodio The Work Outing, forse il migliore della serie.

Quattro stagioni dunque, da sei episodi ciascuno, in linea con la tradizione che vuole annate più brevi per le serie inglesi. Lo show, che nel frattempo aveva avuto anche un tentativo mai portato a termine di remake americano (Aoyade avrebbe dovuto riprendere il suo ruolo), si è concluso definitivamente nel 2013 con la trasmissione di un episodio speciale di circa 50 minuti. Un piccolo e divertentissimo cult, da recuperare assolutamente.