È impossibile riguardare, a 26 anni dall’uscita, l’originale House of Cards con sguardo incontaminato senza ridurre qualunque sua scelta stilistica o narrativa ad un confronto con la versione americana, e americanizzata, in onda dal 2013. Forse non è un punto di vista molto rispettoso nei confronti della prima trasposizione dei romanzi di Michael Dobbs, ma è anche una reazione comprensibile. Detto questo, la trilogia di miniserie andate in onda nel 1990, 1993 e 1995 sulla BBC, benché meno imponente e complessa di quella messa in scena su Netflix, mantiene una sua forte identità, la capacità di giocare con i meccanismi del potere e il fascino del male. Un racconto di fantapolitica che si regge su un pilastro intramontabile, l’interpretazione grandiosa di Ian Richardson.

La vicenda inizia con le dimissioni di Margaret Thatcher, ma sarà uno dei pochi riferimenti all’attualità in una serie che gioca con i nomi e si diverte a inventare, in primo luogo nella rappresentazione della famiglia reale. Seguiamo quindi il conservatore Francis Urquhart, politico di lungo corso che medita vendetta dopo essere stato estromesso da un incarico di governo che gli era stato promesso dal nuovo premier Henry Collingridge (David Lyon). Appoggiato pienamente nel suo proposito dalla moglie Elizabeth (Diane Fletcher), inizia quindi a sabotare il governo, aiutato tra le altre cose da una giovane reporter di nome Mattie Storin (Susannah Harker), della quale si serve per lanciare attacchi ai suoi avversari e con la quale inizia una malsana relazione. L’ambizione di Francis tuttavia non ha limiti e, dopo aver raggiunto il proprio obiettivo anche compiendo azioni indicibili, l’uomo non esiterà ad attaccare anche la Corona.

La corruzione morale di Francis, Urquhart o Underwood che sia, diventa un archetipo nella sintesi tra la versione inglese e quella americana. Se può essere semplice identificare il male con un singolo schieramento politico, il ribaltamento da conservatore a democratico nelle due trasposizioni ci parla di un malessere trasversale, di un gioco di potere in cui le etichette sono, appunto, solo le premesse necessarie di una corruzione che non risparmia nessuno. Da qui, anche per sottolineare il carattere incredibile della vicenda, arriva l’intuizione – poi ripresa nella versione americana – di rompere il muro della quarta parete e rivolgersi agli spettatori con un tono a metà fra l’ironia e l’arroganza.

Ian Richardson in tutto questo è un gigante che infonde al suo ruolo un carisma difficile da riportare a parole. Il fascino perverso del suo personaggio, raramente stemperato da brevi lampi di senso di colpa rapidamente dimenticati, ha rappresentato senza dubbio un modello sul quale Kevin Spacey ha costruito la sua opera di “filtraggio di un’interpretazione all’interno di un’interpretazione”. Ed esattamente come nella serie contemporanea, tutto il resto della storia e dei personaggi brilla di luce riflessa e quindi soffre un po’ quando il protagonista non è in scena, con la differenza che nel cast originale non esiste una Robin Wright a riequilibrare il tutto.

Le differenze non mancano. Il rapporto tra Francis e la moglie è nella serie britannica più chiaro, privo di quelle sfumature e punti d’ombra, soprattutto nella sfera sessuale, che contaminano la serie americana. Ad esempio Elizabeth è ben consapevole della relazione extraconiugale con la giornalista, e anzi è proprio lei a suggerire la possibilità di procedere così. Alcune trovate, come Francis che si traveste per incastrare qualcuno, sono un po’ di grana grossa, ma per la maggior tempo si gioca sulla sottigliezza dei dialoghi e le stoccate malefiche pronunciate con un sorriso sulle labbra. Non è un caso che il tormentone della serie, pronunciato in conclusione di molti episodi e comunque ricorrente, sia la frase sibillina di Francis “You might very well think that, I couldn’t possibly comment”.

Proprio la citazione di questa frase nella versione americana diventa (ma certo, come si diceva all’inizio, la prospettiva per chi recupera l’originale è ribaltata) uno dei molti omaggi di scrittura. Tra i tanti si ricorda in particolare una scena in cui Francis si rivolge allo spettatore mentre si prepara allo specchio commentando un omicidio avvenuto da poco (sequenza quasi identica in entrambe le versioni). La serie è composta da tre miniserie, andate in onda nel 1990 (House of Cards), 1993 (To Play the King) e 1995 (The Final Cut), per dodici episodi totali.