C’era ovviamente Dieci piccoli indiani alla base della trama di Harper’s Island, miniserie andata in onda nel 2009 sulla CBS. Lo stesso “One by one” ripetuto dalla voce di una bambina alla fine della opening di ognuna delle 13 puntate riprende, come fosse una cantilena dalla quale è impossibile fuggire, il “… and then there were none” che chiudeva la filastrocca del romanzo. Anche questo serviva a dare un ritmo di morte crescente e implacabile, mentre i protagonisti di questo thriller estivo venivano eliminati senza pietà. Imperfetto e derivativo, Harper’s Island poggiava su quella leggerezza tipica degli slasher che quasi sfiora l’autoconsapevolezza. Nella sua esagerazione e assurdità, un piacevole compagno di serate.

Sull’isola da cui prende il nome la serie si recano parenti e amici di una coppia, Henry e Trish, in procinto di sposarsi. Il posto tuttavia è stato teatro di omicidi in un passato non tanto lontano, e a quanto pare l’isola non ha finito di esigere il suo tributo di sangue. Lentamente, ma inesorabilmente, uno dopo l’altro gli invitati iniziano a morire. Mentre tanti piccoli conflitti accendono i rapporti tra le persone intervenute, a poco a poco le sparizioni iniziano ad essere notate. In particolare dalla giovane Abby, che torna sull’isola per la prima volta dopo essersi allontanata in seguito all’omicidio della madre. L’escalation degli omicidi va di pari passo con l’aumento dei sospetti e delle violenze, mentre scoprire la soluzione del mistero diventa sempre più una questione di sopravvivenza.

Leggerezza e autoconsapevolezza dicevamo. Basta dare uno sguardo ai titoli degli episodi per rendersene conto. Whap, Bang, Splash, onomatopee che anticipano l’omicidio più eclatante della puntata e il godimento dello spettatore nello scoprire come il malcapitato di turno verrà ucciso senza troppi complimenti. In fondo è questo uno degli elementi classici dello slasher, che poi si mischia con lo splatter: non è tanto ciò che succede, peraltro sempre molto brutale, a dare il senso alla storia, quanto il modo in cui viene raccontato. Ed è chiaro che la serie di Ari Schlossberg vuole soprattutto intrattenere senza creare chissà quale caratterizzazione approfondita o chissà quali tematiche importanti.

Il mistero è necessario, ma anche pretestuoso, come la soluzione che arriva perché deve arrivare. E se il senso della storia o le motivazioni non combaceranno del tutto pazienza, perché a quel punto la serie avrà già fatto il suo dovere. Rimane la curiosità nello scoprire che gli attori non sapevano se il loro personaggio sarebbe sopravvissuto fino a quando non leggevano la sceneggiatura e la curiosità nello scoprire come i comportamenti più assurdi delle vittime – anche questo un classico – verranno puniti di volta in volta.