Scorre più di un brivido lungo la schiena nel leggere i nomi coinvolti nella realizzazione di Masters of Horror: Tobe Hooper, Joe Dante, John Carpenter, Takashi Miike, John Landis, Dario Argento. E anche se la dimensione televisiva risulta più volte stretta ad un progetto che solo a tratti esprime le sue vere potenzialità, è difficile non provare un sincero slancio di entusiasmo nel recuperare i 26 titoli spalmati lungo le due stagioni dello show. E anche se quegli entusiasmi verranno spesso traditi, i momenti migliori di questo “bignami dell’orrore” rimarranno nella mente, a volte segnando il momento più alto dell’ultima fase di alcune carriere registiche. Una serie antologica che contiene alcune perle nascoste, meritevoli di essere recuperate.

Il progetto viene sviluppato su Showtime, un’emittente che aveva appena iniziato la trasmissione di Dexter, lo show che l’avrebbe traghettata tra le “grandi”. Mike Garris, regista e sceneggiatore, nume tutelare di Stephen King quando si tratta di trasporre alcune delle sue opere più celebri sul piccolo schermo (L’ombra dello scorpione, Shining, Desperation), cura il progetto. Come nella tradizione dell’incontro che diede vita ad alcuni dei più grandi capolavori dell’orrore gotico, anche qui tutto parte da una cena tra autori. Alcuni sarebbero rimasti, altri contattati non avrebbero partecipato al progetto (David Cronenberg ed Eli Roth tra gli altri). In ogni caso, tra il 2005 e il 2007, le due stagioni vanno in onda con 26 episodi, rigidamente autoconclusivi. Una terza stagione annunciata non viene mai realizzata.

Ciò che colpisce in una visione generale dell’opera è la varietà di registri e generi. L’horror declinato secondo le sue possibilità, con i mezzi produttivi a mettere quei paletti che però non impediscono alla personalità – quando questa c’è – di emergere. Dalla satira alla tortura, dall’orrore psicologico e lovecraftiano ai serial killer. Da un punto di vista creativo, non si può proprio dire che le potenzialità non siano state sfruttate. Per quanto riguarda gli episodi migliori, la personalità degli autori emerge e non è un caso che i nomi più altisonanti si accompagnano alle puntate più riuscite.

masters of horror

Homecoming di Joe Dante dovrebbe diventare uno snodo da non tralasciare quando si tratta la sua filmografia. Di fronte alla prospettiva di una nuova guerra i soldati morti tornano in vita e votano per non mandare nessuno a combattere. Molta satira sociale e pochissimo horror vero, questo segmento è un compendio ideale di quel film, sempre per la televisione, che Dante aveva diretto dieci anni prima e intitolato “La seconda guerra civile americana”. Anche qui la metafora, l’assurdità della premessa, per raccontare qualcos’altro.

Cigarette Burns di John Carpenter è forse l’episodio migliore della serie. Un cinefilo, interpretato dal Norman Reedus di The Walking Dead, è incaricato di recuperare il mitologico film La Fin Absolute Du Mond, introvabile perché, secondo la leggenda, la sua unica proiezione causò un’ondata di violenza omicida. Più lovecraftiano di questo nell’antologia troveremo solo il segmento di Stuart Gordon. Per il resto Carpenter riprende le stesse fascinazioni che aveva sviluppato in Il seme della follia, uno dei suoi capolavori assoluti.

Imprint di Takashi Miike, nel suo titolo originale molto più efficace della generico “Sulle tracce del terrore” italiano. Un giornalista americano sul finire dell’Ottocento è alla ricerca di una donna che ha giurato di salvare; finirà ad ascoltare le molte versioni della storia raccontate da una prostituta, fino a scoprire l’orribile verità. Ogni cultore della sconfinata filmografia del regista giapponese non può tralasciare questo piccolo gioiello. Miike riesce come sempre a trarre il massimo da ciò che deve raccontare. La violenza visiva è molto forte, ma è l’atmosfera a dare forza all’incubo.

Tra gli altri episodi interessanti vale la pena recuperare Family di John Landis (un serial killer prende di mira i suoi nuovi vicini), Sounds Like di Brad Anderson, che di ossessioni aveva già trattato nel suo L’uomo senza sonno (un uomo amplifica ogni rumore intorno a sé, fino alla follia) e il già citato segmento di Stuart Gordon intitolato Dreams in the Witch-House.