Anche i più grandi detrattori del controverso regista danese non possono non ammettere la sua estrema versatilità. Dalle sperimentazioni visive dei primi, piccoli lungometraggi, alla redazione del Dogma e il suo, quasi immediato, tradimento, e poi ancora più in là, tracciando un limite per il solo piacere di scavalcarlo, Lars von Trier ci ha abituato a non abituarci. Drammi dalle venature bergmaniane, tragedie teatrali, musical, commedia, fantascienza, pornografia, orrore: il genere mai abbracciato a scatola chiusa, ma sventrato e manipolato, adattato al canone di un regista che fa categoria a sé. Una categoria nella quale ricadde, nel 1994 e 1997, anche la televisione con il progetto Riget (The Kingdom) e il suo diretto seguito.

Nessun essere vivente ancora lo sa, ma la porta del Regno sta per aprirsi

Il “regno” cui fa riferimento il titolo è il nome di un ospedale danese, il più avanzato tecnologicamente, fiore all’occhiello della sanità e simbolo della modernità del paese. Costruito sopra un’antica palude dove i tintori andavano a sbiancare i panni, come ci ricorda il prologo, è il teatro di una battaglia secolare, in cui scienziati e medici avrebbero sconfitto ignoranza e superstizione, sostituendole con le certezze della scienza. Ma qualcosa di sinistro sta per risvegliarsi, una forza oscura e senza pace che infesta le tristi stanze dell’ospedale: una medium ascolta il pianto di una bambina provenire da un ascensore vuoto…

Quando si parla di The Kingdom non si può fare a meno di tirare fuori la definizione che lo vede come la risposta europea a Twin Peaks, ma anche la parodia di ER. E si tratta di due affermazioni abbastanza corrette. Nel primo caso, ricordiamoci sempre che siamo a metà degli anni ’90, la carica autoriale di un prodotto che deriva dalla forte personalità cinematografica alle spalle (Lynch nel primo caso, von Trier in questo), ma anche un intreccio di stili differenti e spiazzanti. Si tratta di due prodotti che fanno a storia a sé, che non assomigliano a nient’altro se non a loro stessi, che rivoluzionano e quando non ci riescono segnano comunque una cesura fondamentale nelle possibilità di sperimentazione sul piccolo schermo.

the kingdom

L’idea di “parodia di ER” nasce chiaramente dall’ambientazione ospedaliera, ma più in generale l’intera visione di von Trier si basa su un concetto di appropriazione e rivisitazione di schemi e linguaggi che nel caso televisivo sono quelli di lungo periodo, ristretta ambientazione, ridondanza delle situazioni. L’intreccio è tutto sommato semplice, si basa su invenzioni estemporanee e sull’eccitazione del momento basata sull’incontro di generi, e anche quando le risposte non arriveranno – e molte non arriveranno – la forza stilistica dell’opera ne fa il cardine di una tv ai margini, libera da costrizioni che non siano quelle del suo autore.

E a von Trier, si sa, le costrizioni vanno strette. Qui l’idea del Dogma, che vedrà la luce l’anno seguente, già permea l’opera: tantissima camera a mano, presa diretta, ricerca dell’immedesimazione. Le immagini virate al color seppia, asfissianti e opprimenti (le pochissime inquadrature esterne dell’ospedale ci restituiscono un blocco di cemento che sembra andare a fuoco) sembrano sgretolarsi in ogni inquadratura, ma è tutta la storia ad allontanarci dal concetto di realismo.

Fantasmi senza pace, medium che cercano di evitare il disastro, neonati deformi, primari che abbandonano il razionalismo e cercano di risvegliare i morti, due persone affette da sindrome di down che, isolate da tutto e da tutti, commenteranno in modo sibillino gli avvenimenti, interpretando il ruolo di coro sullo sfondo della tragedia. E tutto assume il ruolo della farsa ridicola, della satira sociale, dell’orrore grottesco e viscerale nel momento in cui ci rendiamo conto che sono le stesse mura del Regno – non-luogo assimilabile all’Overlook Hotel di Shining – a sanguinare. Il regno, già dal titolo, assume un senso più grande, quello di una nazione perduta (“dannati danesi”, l’esclamazione ricorrente) per la quale non c’è salvezza.

L’ospedale come simbolo di arroganza, immoralità, ipocrisia. Il sovrannaturale e l’inconoscibile allora che si manifestano come reazione, non nella forma della meraviglia dreyeriana o bergmaniana, ma come punizione più assimilabile alla visione di Kieslowski. E, su tutto, l’egocentrismo di von Trier, che non ci può lasciare a noi stessi, ma dovrà apparire alla fine di ogni episodio sui titoli di coda, per ammucchiare frasi che non hanno senso e che lui stesso ci presenta così, poco prima di fare le corna alla telecamera.