Il grande pregio, e la maledizione, di Carnivàle è di svilupparsi su tanti livelli, troppi per la televisione del 2003, che già era molto diversa da quella di oggi. Dalla prospettiva storica iniziale, la più semplice e immediata, scivolava lentamente verso considerazioni morali, un racconto di formazione e rinascita che diventava l’ultimo tassello di una mitologia inafferrabile. La creatura di Daniel Knauf, che aveva ben altri piani per il suo progetto, terminava la sua corsa dopo appena due stagioni, ma il suo ricordo, e la sua eredità, non se ne sarebbero mai andati.

La serie seguiva per due anni un circo itinerante nel profondo degli Stati Uniti immerso nella Grande Depressione degli anni ’30. L’aridità del deserto attraversato dai protagonisti è lo specchio di un paese che soffre incagliato tra due guerre, una più lontana nel passato, una prossima a scatenarsi, ma che soffre soprattutto delle proprie mancanze. Questo malessere endemico, della terra, delle persone che la abitano, del periodo storico che stanno attraversando, si incarna in due figure opposte e destinate a scontrarsi. Si tratta di un giovane di nome Ben Hawkins, dai misteriosi poteri guaritori, che si unisce al circo, e di un pastore di nome Justin Crowe, anche lui in possesso di poteri che gli permettono di imporsi sul prossimo.

I due non si conoscono, ma si inseguono, nei sogni, nelle visioni, nelle scelte distanti di ogni giorno. Perché Ben e Justin non rappresentano solo loro stessi. La loro vita e la loro libertà sono state strappate per essere sottomesse a un bisogno più grande, forse l’eterno scontro tra il Bene e il Male che ha trovato i campioni di questa epoca. Loro sono la personificazione di quel malessere che dicevamo sopra, loro sono l’estremizzazione di tutti quei personaggi che li circondano e faticano a tenere insieme dignità e possibilità in un mondo che perde ogni giorno punti di riferimento.

Vogliamo creare un collegamento a posteriori con la tragedia dell’11 settembre, avvenuta appena due anni prima? Possiamo farlo, ma sarebbe riduttivo vedere Carnivàle come una semplice risposta emotiva. Tanto i fatti della serie quanto la sua struttura si pongono in una prospettiva storica lontana proprio perché vogliono raccontare la ricorsività dello scontro tra giustizia e forza, tra la difficoltà della decisione giusta e la semplicità dell’imposizione e dell’arroganza. Non è un caso che sullo sfondo di questo, in fondo, piccolo percorso, già si agitano i venti degli esperimenti sull’atomica e la II Guerra Mondiale. E quale migliore ambientazione poteva esserci per inquadrare un’umanità irriconoscibile e alla deriva, di un circo itinerante?

La visione di Carnivàle non è semplice, il ritmo è lento, la stessa première sembra voglia fare una scrematura tra gli spettatori che hanno voglia di sostenere un percorso difficile e chi invece cerca risposte facili (o, semplicemente, risposte). Carnivàle ripaga lo sforzo nel tempo. Lo fa con una cura maniacale per i dettagli, e d’altra parte stiamo parlando della HBO, con una fotografia di grande impatto, la solita intro indimenticabile, ottime musiche, che spaziano da temi d’epoca al lavoro originale di Jeff Beal.

E poi ci sono i due protagonisti. I loro ruoli li chiamerebbero a interpretare due parti molto rigide, una netta divisione tra la luce e l’oscurità, e invece sono proprio le sfumature dei caratteri che emergono, con i loro dubbi, e danno profondità a tutto. In particolare grande lavoro di Clancy Brown. E nelle retrovie – ma sua è l’apparizione, che parla direttamente con noi, nel prologo – c’è Michael J. Anderson, che naturalmente era il nano di Twin Peaks che parlava al contrario, qui nei panni di Samson, direttore del circo.

Su tutto rimane il confronto tra libera scelta, salvezza, predestinazione e fatalismo. Buoni o cattivi, protagonisti o comparse, quanto sono liberi questi personaggi che fin dalla nascita sono destinati a un percorso? C’è qualcosa di Preacher di Garth Ennis in tutto questo, ma anche dell’Ombra dello Scorpione di Stephen King. Per non parlare della complessità del personaggio di Justin Crowe, un pastore talmente traviato dall’ossessione di bene e male da riprendere, in chiave ancora più estrema, il predicatore Harry Powell di La morte corre sul fiume.

Carnivàle rimane quindi una serie di nicchia, ma importante e meritevole di essere riscoperta. Fosse uscita oggi, la mitologia nascosta avrebbe affascinato molti più spettatori, avrebbe creato confronto in rete, avrebbe permesso alla serie di durare oltre le due stagioni realizzate (Knauf ne aveva previste sei).