Unirsi, o morire. E si può quasi credere a un senso della politica come strumento della libertà, incorrotta e sinceramente appassionata, nello scorrere della visione di John Adams, miniserie della HBO andata in onda nel 2008. Nel raccontare la vita del secondo presidente degli Stati Uniti d’America, l’emittente crea un piccolo classico televisivo contemporaneo. Sette episodi che, con cura maniacale, scandiscono una vicenda umana prima che storica. I classici eroi della fondazione della nazione, simboli prima che uomini, degni di essere dipinti al fianco delle divinità classiche sulla sommità della cupola del Campidoglio (l’opera è “L’apoteosi di Washington”), che vengono celebrati, o semplicemente raccontati, nella loro umanità.

Tratto dall’opera Premio Pulitzer di David McCollough, John Adams prende il via dagli eventi del 1770, quel massacro di Boston che inasprì i rapporti tra le colonie inglesi e la madre patria, dando forza ai venti della rivoluzione. John Adams, che accetta di difendere il capitano inglese accusato del massacro, ci viene presentato immediatamente come un simbolo di integrità e difesa ad ogni costo dei principi. Anche di fronte al biasimo collettivo, anche a costo della simpatia delle masse. Una considerazione che vale anche per gli spettatori: fondamentalmente il personaggio interpretato da Paul Giamatti è antipatico, saccente, lontanissimo da quel carisma che il solo nome di George Washington (David Morse) riesce a ispirare.

E il carisma, quando si tratta di muovere le masse, è tutto. Al netto del valore storico della produzione, sempre attenta e precisa, John Adams rimane il racconto di un uomo chiamato ad agire nell’ombra, nell’eco lontana degli applausi tributati per i suoi compagni, con i quali si trova spesso in disaccordo (Hamilton, Jefferson, Franklin). Nel caso di Washington il rischio di agiografia, e quindi retorica, è troppo alto, mentre Adams può effettivamente diventare lo specchio dei compromessi storici, l’uomo che lavora in silenzio, la personificazione della solitudine del potere. Quella che rimarrà sempre anche quando otterrà il risultato più importante succedendo a Washington nella guida del paese.

John Adams, la serie, ne racconta la vita. La guerra sullo sfondo, le parole e i sinceri contrasti ideologici in primo piano. Alla regia Tom Hooper (Il discorso del re, Les Miserables) in quella che rimane la firma sul prodotto migliore della sua carriera, mentre alla produzione ritroviamo, tra gli altri, Tom Hanks che già aveva partecipato alla realizzazione di Band of Brothers. I valori produttivi garantiti dalla HBO fanno il resto: tra le finezze di ricostruzione, perfino il cambio degli abiti per adattarli alle varie epoche (la finestra temporale va dal 1770 al 1826). Il cast di supporto è grandioso, ma su tutti svetta Laura Linney nei panni della moglie Abigail.

Indimenticabili le scene alla corte francese in Don’t Tread on Me, in cui è forte il contrasto tra la figura di Adams e quella di Franklin (Tom Wilkinson), spesso superiore a lui, quantomeno più diplomatico. Ma anche l’incontro con il re d’Inghilterra nell’episodio Reunion. A cavallo tra due rivoluzioni, la cornice di un mondo che va scomparendo, in cui il distacco del momento si fonde con una visione immediata, ancora una volta capace di parlare per simboli umanizzati, o per uomini resi simboli, non è mai chiaro cosa venga prima.

Ma in fondo è questo a dare forza e concretezza all’opera. La capacità, nella splendida intro con il simbolo del “Join, or die” citato in apertura, di costruire su un impianto da epica moderna – in cui si parla di libertà, uguaglianza, diritti – una storia semplice, anche drammatica e tremendamente personale come nell’episodio Peacefield, che racconta gli ultimi anni di Adams.