Il rumore e la quiete. Il conflitto e la serenità. La vita e la morte. Le contraddizioni insanabili che definiscono del tutto l’esperienza umana e nelle quali, per cinque anni, Six Feet Under si è mosso costruendo un’esperienza televisiva che è prima di tutto un’esperienza di vita. Perché la serie di Alan Ball è senza dubbio uno dei grandi capolavori del piccolo schermo, e lo è senza arroganza, senza astrazioni, senza timore di affondare i denti nel materiale delicato che sta trattando. Ad accompagnarci nella visione del capolavoro della HBO dal 2001 al 2005 c’è la capacità di trattare l’immensità e la profondità delle tematiche in gioco, ma attraverso un’ottica personale e umana, piccola senza dubbio, ma proprio per questo capace di cogliere la straordinarietà del miracolo dell’esistenza.

La morte è la curva della strada/morire è solo non essere visto.

E Six Feet Under rilegge bene a modo proprio l’idea dietro il verso di Pessoa, quella dell’evento certo che irrompe nella casualità della vita. Lo fa nel momento in cui pone come evento scatenante una morte violenta, lavorando da quel momento in poi sulla scia di ciò che questa ha comportato. La dipartita in questione è quella di Nathaniel Fisher (Richard Jenkins), proprietario di un’agenzia di pompe funebri. L’evento in sé non è causa di estremo dolore, anzi viene affrontato con un certo stoicismo e distacco dagli altri membri della famiglia, che tuttavia si troveranno riuniti nella gestione dell’attività di famiglia. Si tratta di Nate (Peter Krause), il figlio maggiore, che rientra nel nucleo familiare dopo essersi allontanato, di David (Michael C. Hall), il figlio di mezzo, più assennato del fratello, della sorella minore Claire (Lauren Ambrose), molto giovane, molto confusa. E poi la madre Ruth (Frances Conroy), che oscilla tra il desiderio di diventare un punto di riferimento per la famiglia e una profonda insoddisfazione.

Vita e morte come concetti complementari, che si richiamano costantemente l’un l’altro, che culminano l’uno nell’altro, generando una massa informe che i più chiamano esistenza. Senza retorica, senza abbellimenti, senza forzature che dovrebbero sottolineare il valore meraviglioso e senza macchia della pura vita. Semplicemente perché non è così: la vita è anche dolore, meschinità, rimpianti, paure. E sono anche questi elementi a darle valore, perché il contrario della sofferenza in questo caso non è la gioia, ma la non esistenza. Una volta oltrepassata la curva citata nel nostro verso, la macchina della morte lascia una scia di vita, ricordi, esperienze. Che ci faranno sorridere e piangere, arrabbiare e odiare, ma che diventano parte della costante trasformazione di ogni individuo in un se stesso più coerente e ricco. L’attimo della morte come slancio verso la vita che rimane.

Ogni episodio inizia con una scena di morte, ora dolorosa e straziante, ora grottesca e perfino divertente, per poi virare su uno sfondo bianco – che in poco tempo diventa familiare e atteso – sul quale compaiono nome del defunto, data di nascita e morte. In questa stessa ricorsività dell’apertura di episodio, che finisce per giocare con le aspettative dello spettatore, c’è tutta l’accettazione dell’inevitabilità e della casualità dell’esistenza. La serie ci dice che possiamo esorcizzare quanto vogliamo con il silenzio il concetto di morte, relegandolo a spiragli bui della vita sociale, ma questo si ripresenta, ancora e ancora, a scandire la vita, oltre le aspettative e il concetto di giustizia, definendo se stesso e, in questo modo, definendo anche noi.

sixfeetunder

Lontanissimo da lacrime facili e chiusure edificanti, Six Feet Under fa spesso ricorso allo humour nerissimo, al grottesco, alla dissacrazione della morte. Un tono che si impone stilisticamente su tutta la storia e sui personaggi. A volte andando oltre il crudo realismo, come nel caso delle ripetute apparizioni, nel corso delle stagioni, del “fantasma” del padre di Nathaniel a David. Ma più spesso concedendosi delle deviazioni rispetto all’atteso corso delle storie e dei rapporti: come nel caso dell’omosessualità nascosta di David e della sua storia con il poliziotto Keith (Mathes St. Patrick), o della tormentata storia d’amore tra Nate e Brenda (Rachel Griffiths), o delle seconde occasioni di Ruth. L’attesa non è nulla, il presente, questo attimo, è tutto: come dirà Brenda a un certo punto, “The future is just a fucking concept that we use to avoid being alive today”.

Dove gran parte della narrazione, seriale e non, lavora nel tenere sulle spine lo spettatore, sulla tensione e i colpi di scena, Six Feet Under si limita a raccontare eventi e personaggi. Tranne alcuni stralci di storyline accennati sopra, la scrittura rinuncia all’incedere furioso del narratore che deve aggrovigliare eventi e spettatori. Perché, anche qui, la vita ha una sua bellezza impura e sporca, fastidiosa e viscerale, che le permette di sbocciare da sé nella considerazione di chi la osserva. Per questi motivi, uniti ad una scrittura impeccabile, personaggi indimenticabili, caratterizzazioni ottime, uno stile personale, una maturità che le permette di trattare tematiche così alte in modi stratificati e mai banali, Six Feet Under (la profondità a cui vengono seppelliti i corpi) è un grande viaggio.

E il tema del viaggio ricorre infine nei minuti conclusivi dell’opera, indimenticabili. L’ignoto è parte dell’esistenza, è il panorama oscuro alla fine della notte, ma, prima di arrivarci, dovremo camminare, guidare lontano. La curva della strada si avvicina, e una macchina non può far altro che andare verso di essa. Ma può concedersi deviazioni lungo la strada, piccoli momenti personali, piccole affermazioni di sé, mentre intorno altri viaggi finiscono. Una vita lunga un attimo, un attimo lungo una vita, in quello che è il miglior finale della storia della televisione.