Il 19 Aprile del 1987 all’interno del Tracy Ullman Show veniva mandato in onda per la prima volta un piccolo corto di 1 minuto nel quale era rappresentata una famiglia americana media, dipinta di giallo. Era la creazione di Matt Groening e Sam L. Brooks, una versione senza sconti del peggio espresso dalla pop culture americana nella maniera in cui questa si appiccica agli esseri umani e ne influenza il comportamento.

Due anni dopo, nel 1989, sarebbe partita la serie regolare, quella con episodi da mezz’ora. Fino a quel punto i Simpson hanno continuato ad andare in onda nella forma di piccoli corti durante il Tracey Ullman Show, uno spettacolo umoristico che univa diversi sketch.

In Italia solo due anni dopo sarebbe nato Blob ma i Simpson già facevano, in modi diversi, il medesimo lavoro, utilizzavano la tv e la sua cultura per dare un giudizio su chi la televisione la guarda. Noi.

Chiunque abbia un po’ di confidenza con quei corti (in un episodio dei Simpson di quelli realizzati usando spezzoni di vecchi episodi se ne vedono alcuni) sa che manca moltissimo di ciò che avrebbe fatto la fortuna della serie regolare, che molti caratteri sono sballati, anche molto del design non è lo stesso e infine non hanno il ritmo che invece poi è stato un tratto distintivo. Erano una forma embrionale di quel racconto ma il carattere c’era già tutto. Il medesimo prodotto con dietro una squadra e una cura diversi.

Da quel momento l’animazione ha seriamente cambiato casacca. Già esisteva una versione seria ed adulta della satira (il Muppet Show) come anche dei cartoni, ma nessuno ci aveva iniettato come I Simpson in quel momento l’idea di non avere pietà con lo spettatore nel rappresentarlo. Non si trattava di satira cattiva contro i potenti o contro qualche argomento d’attualità, ma satira sociale. Nonostante quei corti abbiano un tono molto più molle e lieve, cerchino di scimmiottare i cartoni più innocui molto più di quanto poi non farà la serie, avevano in sé già una delle componenti più importanti della serie: il sovvertimento.

La polizia è sempre lassista e incapace, inaffidabile e cialtrona, i custodi del proprio interesse e della mancanza di voglia di lavorare. La scuola è un posto poco curato, in cui nessuno è un professionista del proprio lavoro ma desidera solo tornare a casa, in cui i bambini si vessano a vicenda e dove ogni talento è trascurato. Il lavoro è un posto alienante dove il merito conta pochissimo e le gerarchie sono mantenute in maniera ottocentesca. Il bar è l’unico posto in cui stare bene ma solo perché assieme ad altri uomini finiti. La famiglia al contrario è un’oasi.

Con la continuità, il tono assoluto e la coerenza dei cartoni animati questi presupposti sono mantenuti sempre, in ogni episodio. E proprio quest’assenza di salvezza, questa costante denigrazione di ogni istituzione è il tratto che più impressiona ad oggi.

Da I Simpson sono nate tantissime altre serie tv animate che fanno satira sociale, Seth MacFarlane ci ha costruito un impero ma anche BoJack Horseman parte dai medesimi assunti, cioè poter fare disegnando quel che con attori in carne ed ossa sarebbe poco accettabile.

Certo è molto difficile intravedere in quei corti dai tempi così dilatati, così pieni di vuoti anzichè dei pieni che caratterizzano la serie regolare, la prefigurazione del successo futuro, tuttavia se ci si astrae dalla realizzazione e si seziona il prodotto, con l’occhio clinico del chirurgo, è possibile scorgere un germe anarchico sano e ristoratore.

Perché nonostante le molte maniere in cui I Simpson negli anni sono stati riportati nei ranghi, hanno proposto un trionfo del buon sentimentalismo e un momentaneo scampo al pessimismo, la loro missione è sempre rimasta mettere in scena un mondo anarchico in cui le fonti di potere sono delegittimate, in cui l’ordine costituito e chi dovrebbe farlo rispettare non esiste, non esercita il proprio dovere o non sa farlo bene, in cui il consumo è la spinta primaria e la televisione l’unica possibile e affidabile fonte di ordine.

Tutto questo già era lì, in quei corti, nascosto da un monte di naivitè, disegni precari, ritmo claudicante e andamento incerto.