Nel 1973 Billy Jean King, allora la più grande campionessa della storia del tennis femminile americano, raccoglieva la sfida di Bobby Riggs campione di tennis maschile di diversi anni più vecchio di lei. Riggs sosteneva che lo sport maschile fosse talmente superiore a quello femminile che anche lui, a 55 anni, avrebbe potuto battere lei, che ne aveva 30.

Riggs aveva già sconfitto una campionessa, Margaret Court, in una partita simile ma Billie Jean King aveva tutto un altro valore simbolico. Era una paladina del women’s lib, il movimento per i diritti femminili, si era battuta per anni per parità di diritti e maggiore considerazione. L’evento fu trasmesso in televisione per un audience di 90 milioni di spettatori in tutto il mondo.

Comincia così, con un’intervista a Bobby Riggs prima del match, il quarto episodio di I’m Dying Up Here, il più musicale fino ad ora ma anche il più concreto e godibile. Torna Dave Flebotte alla scrittura dopo il pilota e si sente. Sugar and Spice è secco, asciutto e costruito su moltissimi livelli differenti, ovviamente incentrato sulla battaglia dei sessi (così si chiamava quella partita di tennis: Battle of Sexes) e di fatto capace di alzare l’asticella dello show ad un livello più che accettabile, benché non migliorino molto i dialoghi. tutto ciò che fino ad ora era sembrata velleità (la critica sociale, la ricostruzione d’epoca, l’approfondimento di personaggi contraddittori) qui si avvicina ad uno standard degno di questo nome.

Ci sono tre modelli femminili in questa puntata che inizia con un flashback di Goldie risalente al 1927, quando lei bambina in un comedy club ebreo viene sculacciata dal padre perché assisteva allo spettacolo da dietro le quinte (evidentemente anche i genitori gestivano un teatro) e spedita a cucire con la madre. Stacco, vediamo Goldie cucire un pantalone oggi, è di Bill Hobbs. Goldie avrà una questione con l’ex marito, anch’egli un comico ma appassito che le chiede, anzi pretende, un posto venerdì sera sul palco principale per impressionare degli executive televisivi, benché non sia in grado. Con un fare che tradisce un rapporto impari impone la sua volontà, pretende e ha un fare da boss, ma Goldie con un movimento tipico del sistema con cui le donne riuscivano a comandare in epoche in cui questo non era accettabile, saprà dargli quello che vuole e nel farlo punirlo: mettendolo dopo Richard Pryor (ah! C’è Richard Pryor in questa puntata ma ora ci arriviamo).

La seconda donna è Cassie, la ragazza che cerca di farsi strada tra gli uomini, simbolo più che del mutamento negli equilibri tra sessi dell’urgenza che si stava creando nella società, anche lei presa in una storia di cucito nel momento in cui porta un vestito vecchio da un sarto a far riparare e riceve da lui complimenti e gentilezze che la fanno piangere. Già ad inizio puntata è testimone di un goffo momento da camerata in cui i comici, seduti con lei al diner fanno apprezzamenti sovradimensionati su una nuova cameriera. Cassie comincia a capire che forse non la considerano più una donna ma un uomo come loro. Userà allora il vestito per essere più bella che mai e andare ad una festa con Bill, dove però incontrerà una groupie e sarà messa faccia a faccia con lo spettacolo della riduzione della donna ad oggetto sessuale.

Infine, il segmento più interessante, è quello che vede Eddie nel ruolo di spalla per una comparsa. Bill, geloso del suo rapporto con Cassie, spinge nella direzione di Eddie una groupie di comici, una ragazza che va a letto solo con comici di successo, che li intende come trofei. Eddie ovviamente accetterà e finirà in una relazione un po’ ridicola con questa pantera del materasso piena di strane abitudini. Così strane che alla fine, dopo una serie di gag e situazioni grottesche, dovrà sbottare e accusarla di essere troppo assurda per lui, subendo in ritorno una tirata molto seria sul fatto che anche gli altri possono avere esigenza di essere strani. È un segmento sorprendente e interessante ma ritorna uno dei difetti più clamorosi di I’m Dying Up Here, quella meccanica brutalità nel passaggio tra serio e faceto, tra leggero e pesante. Uno sfigato diventa cool nel lasso di uno stacco di montaggio e per ogni lacrima deve arrivare per forza una battuta, anche forzata, immediatamente dopo.

Sono tre storie di donne in adorazione degli uomini. Sia Goldie che non è mai riuscita a staccarsi da questo ex marito, sia Cassie e le groupie, sia la groupie con Eddie. Donne che vivono un rapporto squilibrato con gli uomini in una società che non funziona come la nostra. I’m Dying Up Here infatti oltre a voler raccontare molto i meccanismi del mondo della stand up comedy (quanto si guadagna? Chi è in esclusiva? Che significa? È possibile esibirsi in più locali? Quanto tempo ci vuole per preparare una gag?) ha anche la ferma intenzione di mettere in scena l’epoca.

Questi due binari si sovrappongono nella sottotrama di Richard Pryor e della sua giornata in giro con RJ. Pryor infatti non è solo il più grande comico degli anni a venire, ma anche simbolo di come era cambiata l’arte della stand up comedy e il paladino di un punto di vista chiaro e forte sul mondo, commentatore dei suoi anni.

Forse era inevitabile che una serie che flirta così da vicino con le vere storie di grandi star, ad un certo punto dovesse rappresentarle. Richard Pryor è qui interpretato da Brandon Ford Green, attore che non gli somiglia molto (e questo è bene), non impegnato in una vera e propria imitazione (ancora meglio!) ma solo calcato leggermente sull’inflessione che aveva il vero Pryor. Se però la rappresentazione funziona, è meno armonica la maniera in cui è impegnato il suo punto di vista. Non siamo di fronte alla comparsa di Orson Welles nel film Ed Wood, cioè un gigante che non dice molto ma funziona per la presenza e l’aura che emana in quel momento. Qui Pryor ha delle idee, esprime pareri e punti di vista, ha una personalità ferma, peccato che non sia davvero lui e che sia qualcosa deciso da Flebotte senza consultare l’interessato (che è morto 12 anni fa). Questo, inevitabilmente, stona con la precisione della ricostruzione e l’equilibrio narrativo.

Forse non è nemmeno un caso che il momento migliore della presenza di Pryor sia un dialogo fatto su di lui ma non con lui, quando il suo agente nel descrivere la sua diversità rispetto agli altri dice: “Non fa battute, lui parla con i fantasmi e il pubblico è testimone di tutto ciò”.

Qualora vi interessasse poi Billie Jean King, dopo essere andata inizialmente sotto di 4 game, ha vinto l’incontro 6-4, 6-3, 6-3, la vediamo intervistata in televisione alla fine dell’episodio, esattamente come Riggs era comparso all’inizio.

Quella vittoria fu un momento di svolta per il movimento per i diritti della donna, un colpo fortissimo per un certo modo di vedere gli uomini e il lo strapotere e la stessa King anni dopo disse “Se avessi perso saremmo tornate indietro di 50 anni”.