Con i suoi appena sei episodi, The Corner è una miniserie cruciale per la storia del piccolo schermo. Andata in onda nel 2000 sulla HBO, che già iniziava a confezionare gemme come Oz e I Soprano, questa miniserie segna l’inizio di una delle collaborazioni più importanti della storia della televisione, quella tra l’emittente via cavo e l’autore David Simon. Da “angolo” a pietra angolare, The Corner è l’inizio di quel matrimonio creativo dal quale sarebbero scaturite opere imperdibili come The Wire, Generation Kill, Treme e Show Me a Hero. Ma è anche una serie che vale di per sé, un drammatico blues di quartiere, tra degrado e dipendenza, ferocemente ancorato alla realtà.

“We sitting here day after day making ourself a little bit less human.”

Il retroterra giornalistico di David Simon aveva già operato da spunto nel 1992 per Homicide: Life on Streets, serie tratta dal suo libro di non-fiction e andata in onda per sette anni sulla NBC. Sempre da un’opera dello stesso Simon, intitolata The Corner: A Year in the Life of an Inner-City Neighborhood e scritta a quattro mani con Ed Burns, nasce The Corner. In questo caso Simon è coinvolto attivamente nell’adattamento dell’opera per il piccolo schermo, insieme a David Mills. La regia di tutti i sei episodi è di Charles S. Dutton. Proprio l’attore e regista appare all’inizio e alla fine di ogni episodio per narrare, in una perfetta sintesi tra l’anima fiction e quella documentarista della serie, la vita da strada.

The Corner non è ancora l’opera-mondo, titanica e impressionante, che sarebbe stato The Wire, ma per certi versi ne rappresenta il prologo ideale, un primo approccio al linguaggio, allo stile e alle tematiche di quella serie. L’ambientazione rimane Baltimora, più precisamente una delle aree più degradate nella zona ovest. L’angolo del titolo è quello tra West Fayette Street e la North Monroe Street. Qui si incrociano le vite ai margini di alcuni personaggi, spettri, perfette rappresentazioni di un degrado sociale privo di sbocchi, in cui ogni tentativo di autodeterminazione si scontra con l’ambiente ostile e con la fallibilità dei personaggi stessi, apparentemente destinati a ricadere negli stessi errori.

Protagonisti sono Gary McCollough (T. K. Carter), tossicodipendente che vive alla giornata, Fran (Khandi Alexander), sua moglie, vittima degli stessi problemi, il figlio maggiore DeAndre (Sean Nelson), sbandato e privo di punti di riferimento. Tra spaccio e tossicodipendenza, la famiglia Boyd naviga a vista in un ambiente privo di prospettive, tra lavori saltuari e problematiche di vario genere. Non un faticoso e sentito racconto di rinascita, ma quello che fin dai titoli degli episodi si presenta come un doloroso e malinconico blues, la presa di coscienza a più livelli di uno stato delle cose. La tensione documentaristica dell’opera risuona poi nella nostra consapevolezza che la storia è vera: i personaggi reali appaiono in alcuni camei, lo stesso Deandre è scomparso per overdose nel 2012.

The Corner non è dunque ancora l’universo reticolare e stratificato di The Wire. Non ne ha l’intreccio elaborato né le ambientazioni diversificate. Eppure, nel suo focalizzarsi su uno sguardo più intimista, quasi soffocante, elabora una costruzione di caratteri che non hanno nulla da invidiare all’emblematicità di quelli di The Wire. Saranno anche persone vere, ma i Boyd funzionano come elaborazione di un malessere collettivo, forse prodotti essi stessi dell’ambiente in cui sono calati. Scorrono i titoli di coda di ogni puntata su muri pieni di graffiti, volti stanchi, giovani poggiati ai bordi delle strade, forse con lo sguardo perso in attesa di qualcosa.

Il taglio dell’opera è quello delle seguenti opere di Simon, perfino quelle di ambientazione esterna come Generation Kill. Dietro un apparente distacco e alla freddezza dell’esposizione, si agitano conflitti interiori, specchio di un malessere sociale. Non è ancora la sinfonia di The Wire, ma questo blues ha un cuore che non può lasciare indifferenti.