Bisogna decisamente resistere alla tentazione di accostare Generation Kill al dittico formato da Band of Brothers e The Pacific per trarne un’improbabile trilogia bellica firmata dalla HBO. Pur rimanendo nell’ambito della programmazione, ormai storica, dell’emittente, più corretto sarebbe inserire questa gemma all’interno del percorso coerente e riconoscibile di David Simon. Lo stesso iniziato nei bassifondi di Baltimora, che si sposta in Iraq per raccontare le prime fasi della II Guerra del golfo. Se per qualcuno le serie tv sono la nuova letteratura, Generation Kill è un saggio di drammatica lucidità e freddezza, una finestra semidocumentaristica che trascende gli scenari urbani di The Wire o The Corner in favore di una visione disumanizzante – o forse fin troppo umana – di ciò che rappresenta il conflitto.

War is the motherfuckin answer

La serie racconta le prime missioni condotte sul territorio straniero durante l’operazione Iraqi Freedom. Il primo battaglione dei marine arriva nel deserto nel nord del Kuwait, e da lì prende il via l’avanzata verso obiettivi sempre più importanti. A raccontarci la missione, i soldati, il territorio, sono gli occhi di un reporter di Rolling Stones – storia vera, la serie è basata proprio sul libro del giornalista – che arriva sul posto e segue i soldati nei loro spostamenti.

L’intreccio è ridotto al minimo, le concessioni al puro svolgimento sono poche, e così il senso stesso dell’opera si svela poco a poco. Il senso di Generation Kill è quello di narrare il paradosso di un’avanzata immobile, in cui la stessa ambientazione desertica rigetta sulle spalle dei soldati le aspettative di una soluzione, una svolta, anche solo un senso negli accadimenti. Band of Brothers, data la sua prospettiva storica, ma anche il diverso contesto bellico, poteva giocare su una narrazione più compiuta, maledettamente epica, su un sacrificio che aveva un senso perché diventava strumento di un percorso già tracciato. Dall’addestramento fino al covo del nemico, la percezione degli eventi non ammette conflittualità.

Generation Kill è invece rigidamente ancorato ad una visione presente che non elabora perché forse non c’è nulla da elaborare. È parente stretto di Redacted di Brian De Palma, ma anche dell’Over There andato in onda su FX pochi anni prima, è un “deserto dei Tartari” in movimento, in cui la frustrazione è rappresentata dall’orizzonte sabbioso e dall’impossibilità, per i soldati, di sparare un colpo (ma questa si sbloccherà presto). E non c’è gloria da ricercare, non perché il male non esista, anzi, ma perché la serie rifiuta quella rigidità che invece era così facile identificare in altri conflitti, in cui l’intervento era più chiaro, più legittimo. Per avere una dimensione immediata della distanza, basta confrontare la partita di baseball che chiude Band of Brothers e quella di football che chiude Generation Kill.

Lo sguardo torna quindi sempre a casa, ai quartieri abbandonati, alle tensioni sociali trasportate in Iraq. I soldati che seguiamo sono sboccati, volgarissimi, e l’elemento etnico torna sempre nei loro discorsi: un paese intimamente diviso che dovrebbe portare unità altrove. A quel punto il senso di alienazione della guerra è presentato come un qualcosa di superfluo, di scontato. Questa è una nuova umanità, che non lotta per qualcosa di giusto, che non ha nemmeno il triste privilegio di tornare a casa disumanizzata dal conflitto, ma che ha già perso in partenza, che traspone su uno scenario alieno (alieni i paesaggi, alieni i loro abitanti, alieni i loro comportamenti, come un iracheno che non reagirà all’uccisione della figlia) un senso di perdita e smarrimento che è già presente.